La Scuola del Libro dell'Umanitaria di Milano, la "Bauhaus italiana" ha una storia affascinante, iniziata nel 1904 e conclusa nel 1981, anno in cui la Scuola, espropriata ex lege delle competenze formative, dei corsi, delle strutture, passati alla Regione Lombardia, ha scritto la parola fine, soltanto sui documenti. A venticinque anni dalla "chiusura" vale la pena ricordare la straordinaria esperienza, i grandi protagonisti, le celebrazioni del centenario della Scuola e la pubblicazione Spazio ai caratteri. L'Umanitaria e la Scuola del libro, ideata per commemorarlo.
Gli inizi, nel 1904, nell’edificio tra le vie Goldoni e Kramer
Culla della Scuola del Libro è una Milano in espansione, industrializzata e industriosa, con un associazionismo operaio attivo, ma insieme non esente da disoccupazione, analfabetismo, fame anche di diritti, di emancipazione.
Culla della Scuola del Libro è una Milano in espansione, industrializzata e industriosa, con un associazionismo operaio attivo, ma insieme non esente da disoccupazione, analfabetismo, fame anche di diritti, di emancipazione.
Il capoluogo lombardo che si affaccia al ‘900 è anche il centro più importante del Paese per le attività editoriali sia librarie che giornalistiche, la “Lipsia d’Italia”, le cui strade olezzavano di inchiostro.
È la Milano di Sonzogno, dei Treves, di Ricordi, in cui operano una decina di grandi e moderne tipografie ma anche di un centinaio di piccole tipografie disseminate in città e nell’hinterland. Un centro in cui lo sviluppo tecnologico dell’editoria è veloce, il numero dei lavoratori del settore cresce e i tipografi milanesi, “aristocrazia operaia”, sono tanti potenziali editori nonché punta di diamante dell’associazionismo: nel 1866 la Cooperativa Fonderia Tipografica di Milano - oggi l’ultima “fabbrica dei caratteri” rimasta - aveva aperto la strada alla cooperazione tra operai e maestranze. Nel 1902 in Italia si contano 30 cooperative, tra cui spicca la Tipografia degli Operai di Milano, con 773 soci.
In un tale contesto di progressi e squilibri si collocano le istanze, rivoluzionarie sul fronte della formazione, di una Società Umanitaria ripartita alla grande nel 1901, dopo aver subito la repressione di Bava Beccaris. E prende forma l’idea di una rete di innovative scuole-laboratorio, in cui realizzare il binomio virtuoso studio-lavoro caro all’Umanitaria foriero di sicuro progresso sia per i lavoratori che per le industrie.
Si trattava in sostanza di scuole professionali ante litteram, in grado di supplire alle carenze della scuola statale e conciliare la crescita economica in un mercato sempre più qualificato con la promozione sociale dei lavoratori. Preso atto che di quest’ultima gli industriali non intendevano farsi carico.
La grande avventura della Scuola del Libro comincia quando i progetti dell’Umanitaria – presidente Giovanni Battista Alessi - incontrano le esigenze e la richiesta di aiuto della Scuola Professionale Tipografica di Milano, operante da qualche anno, a corto di mezzi e presieduta da Giuseppe Fumagalli, illuminato bibliotecario della Braidense.
A partire dal1902 iniziano le trattative ed è elaborato di comune accordo il concetto di scuola-laboratorio per la “professionalizzazione” dei giovani operai del settore poligrafico già occupati, contro le scuole-officina per apprendisti.
L’inaugurazione della Scuola, avvenuta il 13 marzo 1904 nel salone conferenze di via Goldoni, presenti molti milanesi importanti e meno, fu così un punto di arrivo prima che di partenza.
Un Concordato con la Scuola Tipografica, di fatto assorbita, sancì la costituzione della Scuola del Libro come istituto autonomo “sotto il patrocinio della Società Umanitaria”. Che impresse il suo marchio all’impresa mettendo a disposizione l’edificio tra via Goldoni e via Kramer − luogo strategico “in un quartiere dove spesseggiano gli stabilimenti tipografici”−, ampliandolo con un padiglione e accollandosi anche le spese per adeguare le strutture e i mezzi al progetto formativo, ambizioso per l’epoca. La frequenza era del tutto gratuita per i capaci e meritevoli: la modica tassa di iscrizione (2 lire), veniva restituita agli allievi che avevano frequentato e si presentavano agli esami.
La grande stagione del primo ‘900: Osimo, Bertieri e “campisti”
La Scuola del Libro - che annovera tra i maestri il grande illustratore Leopoldo Metlicovitz, titolare del Corso di Disegno litografico - nel 1904 sforna già dei diplomati: il primo è Amilcare Pizzi, futuro maestro nelle arti tipografiche.
Nel 1905, allo scadere della Convenzione con la Scuola Tipografica, l’Umanitaria deve fare i conti con l’esiguità del contributo ministeriale –1500 lire – a fronte delle ingenti spese sostenute. Li fa quadrare costituendo il primo Consorzio - gli altri due sono datati 1916 e 1945 - per il mantenimento della Scuola, cui partecipano le Federazioni del Libro e dei Litografi. E intanto si procede ad ampliarla e rivederne l’assetto didattico. Anche perché le iscrizioni sono in costante aumento e le industrie cominciano a richiedere il diploma della Scuola del Libro.
Nel 1911 l’Istituto, con le sue nove sezioni, è completo e nei due anni successivi sospende l’attività per traslocare in via Manfredo Fanti, pronto a un salto di qualità. Il 1914 è l’anno della prima rinascita, segnato da due eventi importanti: l’ingresso di Augusto Osimo nel Consiglio della Scuola e la partecipazione all’Esposizione internazionale del Libro e d’Arte grafica di Lipsia in rappresentanza dell’Italia.
Osimo, geniale quanto pratico, si batterà per una Scuola in grado far proprie le esigenze dell’industria locale senza mai perdere di vista la promozione umana e professionale dei “figlioli del popolo”. Si fa promotore di un secondo Consorzio con una più folta lista di partecipanti, tra cui la Provincia e il Comune di Milano e la Camera di Commercio. E nel 1918 chiama a dirigere la Scuola Raffaello Bertieri, uno dei maggiori tipografi dell’epoca, paladino del gusto e della dignità dell’arte grafica e in più consapevole dell’esigenza di mano d’opera più qualificata generata dalle mutate condizioni industriali. Bertieri, che rimarrà fino al 1925, potenzia i corsi e soprattutto inserisce una Sezione diurna di tirocinio aperta ai dodicenni: il corso è biennale, di sette ore al giorno e comprende la refezione.
Vi insegnano l’incisore Giulio Cisari e il pittore Guido Marussig, tra i cui allievi ci sono i futuri “campisti”: Attilio Rossi, Carlo Dradi, Giovanni Peviani e Mario Soresina, ideatori della rivista "Campo Grafico" e protagonisti della rivoluzione tipografica da essa rappresentata.
L’avvento del fascismo coincide con il commissariamento dell’Umanitaria, che conserva però la formazione professionale, anche se come unica finalità statutaria. Quanto alla Scuola del libro, è accerchiata dal Regime sul fronte economico.
Ciò nonostante, è considerata “una delle più importanti scuole professionali” del Paese anche perché opera nel “più grande centro editoriale e grafico d’Italia” e registra un continuo aumento degli iscritti, tanto che nel ’31 l’Umanitaria decide di assumersene direttamente la gestione.
Dal ’32 si procede a un nuovo riassetto. Gli allievi bisognosi sono esentati dalle tasse e i meritevoli gratificati con premi in denaro. I programmi sono uniformati a quelli governativi delle scuole di avviamento, e la Scuola diviene sede legale d’esame, con conseguente riconoscimento legale delle licenze. La validità contrattuale dei diplomi, sarà riconosciuta dall’Enpig (Ente nazionale per l’Istruzione professionale grafica) nel 1962.
Negli anni Trenta, la Scuola, che ha ormai assunto la fisionomia di una Bauhaus seppure a misura di adolescenti, si distingue per il vento di modernità e rigore che vi soffia, per la coerenza estetica e morale a cui educa. Numerose le mostre e i concorsi cui partecipa, in Italia e all’estero - nel ‘35 alla Biennale di Venezia e alla Triennale di Milano – con risultati sempre lusinghieri.
I bombardamenti dell’agosto del ’43 segnano una pausa di arresto prima della grande rinascita del dopoguerra.
La rinascita e gli anni d’oro di Bauer e Steiner
“Nell’aprile del 1945, appena sbarcato a Milano − ricorda Alberto Cavallari − cerco l’Umanitaria e trovo solo un cumulo di macerie tra via San Barnaba e via Pace… Il luogo della mia leggenda non esiste più…”. Ma di notte, nella redazione di Italia Liberata, il grido dei tipografi di fronte al bozzone di una bella pagina è “Scuola del libro!”: i bombardamenti avevano dunque distrutto la sede dell’Umanitaria, strutture scolastiche comprese, non lo spirito.
E non a caso, l’opera di ricostruzione − avviata dal commissario Lodovico d’Aragona e da Riccardo Bauer che, rientrato a Milano, sarà alla testa dell’Umanitaria fino al ’69 − parte proprio dalla Scuola del Libro.
Sarà in buona misura la solidarietà di Milano a curare le ferite inferte dalla guerra. Tra le forze attivate dall’Umanitaria per costituire il terzo Consorzio, spiccano gli operai poligrafici: il loro contributo di una lira settimanale, tolta direttamente dalla scarna busta paga, la dice lunga sull’attaccamento e sulle speranze professionali che la categoria riponeva nella Scuola del Libro.
E quando Piero Trevisani − direttore della Scuola dal ’45 al ’48 − nel gennaio del ’47 lancia via radio il suo accorato Sos, i primi corsi sono già partiti, seppure in un sottoscala, con una linotype recuperata e ripulita.
Nel ’49 si ricomincia sotto la direzione di Enrico Gianni e con un ricostituito corpo insegnante in cui figurano Bruno Munari, Luigi Veronesi e l’ex allievo Carlo Dradi. Nel ‘53 , Michele Provinciali, arrivato da Chicago, inaugura corsi di progettazione grafica e di fotografia sperimentale.
Nei primi anni Cinquanta è già in atto il rilancio della Scuola, sotto le direttive di un Bauer che si batte strenuamente perché la sua Umanitaria torni ad essere punto di riferimento per la nazione, come dimostra la vicenda Umanitaria-Angelo Rizzoli.
Il rifiuto di una fusione con l’Istituto Rizzoli, che avrebbe snaturato la Scuola del Libro, è scontato con l’amarezza per i fondi dirottati anche dal Comune in direzione Rizzoli. Ma la vicenda è presto archiviata da un pool di dirigenti e docenti di prim’ordine, che regalerà alla Scuola una stagione d’oro.
Nel ’53 partono i lavori di riedificazione del complesso di via Daverio-Fanti-Pace e nel ’55 la Scuola del Libro può occupare un intero edificio.
La grande rinascita datata anni Cinquanta trova concreta rappresentazione nella fusione di tre elementi: il progetto di Giovanni Romano, la presidenza di Riccardo Bauer e l’impronta umana, didattica, artistica di Albe Steiner.
Il progetto dell’architetto Romano evoca l’edificio della Bauhaus di Dessau per i volumi, gli spazi e i contenuti, pensati nell’ottica della manualità e della conoscenza vissute insieme. È l’”officina per l’addestramento tecnico e in pari tempo centro di elevazione morale e civile” voluta da Bauer - qualcuno la chiamava Bauerhaus, ricorda Emilio Fioravanti - nella prospettiva di una riedificazione a tutto campo dell’Umanitaria.
La stessa filosofia di profonda integrazione fra teoria e prassi che era l’anima della Bauhaus e la forma mentis dell’Umanitaria, si ripropone nella direzione e nella didattica di Albe Steiner.
Il nostro Gropius, che vedeva nella tecnica grafica un mezzo per trasmettere cultura, quando nel ’59 arrivò alla Scuola del Libro dell’Umanitaria, chiamato da Michele Provinciali, aveva già alle spalle esperienze come quella del Politecnico di Vittorini, che progettò e la cui grafica - che rivoluzionava il rapporto fra testi e immagini – fece scuola nell’impostazione di gran parte della stampa di sinistra. E influenzò in modo profondo e duraturo mondo del giornalismo: valga per tutti il nome e l’esempio di Giuseppe Trevisani, “il Trevi”, inventore della figura del “progettista di giornali”, del “giornalista-grafico”, innovativa figura polivalente per Giancarlo Iliprandi, snobbata però dai colleghi giornalisti in un contesto in cui i comparti della comunicazione erano distinti e si guardavano con reciproca diffidenza.
“Il Trevi” fa parte come Steiner del gruppo del Politecnico di Vittorini − è segretario di redazione dal ’45 al ’47 –. È lì che impara il gusto della fotografia usata per raccontare delle storie, le didascalie narranti, i fumetti.
Sia Steiner che Trevisani partecipano nel ‘71 alla sfida comunicativa de Il Manifesto, che fu progettato da Trevisani con uno stile steineriano, “tale da costringere all’essenzialità”.
Steiner, negli anni anni del suo “regno”, che durò fino al ’74, anno della sua morte, si avvale della collaborazione di un gruppo di docenti di prim’ordine – Max Huber, Bob Noorda, Pino Tovaglia, Bruno, Munari, Massimo Vignelli, Antonio Arcari, Enzo Mari, ecc… - e trasforma la Scuola in un laboratorio interdisciplinare in cui gli allievi sono comprimari dei maestri e tutti insieme lavoravano per rinnovare il volto della comunicazione visiva.
Neppure gli anni della contestazione e gli anni di piombo – Bauer nel ’69 fu costretto a dimettersi - li fermano o li disorientano. Saldi nei principi e nei valori della Scuola del Libro, cercano un rilancio. Che negli anni Settanta sembra materializzarsi nell’idea di un istituto tecnico professionale unitario. Finché nel 1981 la Scuola, espropriata ex lege in modo definitivo delle competenze formative, dei corsi, delle strutture, passati alla Regione Lombardia, scrive la parola fine, soltanto sui documenti.
(Il testo postato è quello del servizio pubblicato su Tabloid, testata dell'Odg Lombardia-Milano, Anno XXXV, n. 7-8 Luglio-Agosto 2005).